mercoledì 27 febbraio 2013

Venti racconti allegri e uno triste


“12

Letame

Sovente, girando per città e paesi, appaiono scritte vistose, incollate a porte e portoni che dichiarano, senza giri di parole, di acquistare metalli preziosi. “Compro oro” recitano in caratteri piuttosto perentori. Ultimamente, come se gli occulti acquirenti si fossero pentiti della svista, stanno ripescando il fratello minore. “E argento” aggiungono ai cartelli.
Un mio, diciamo, amico, che conosco da quarant’anni ma ho visto poco per via del suo lavoro, qualche tempo fa decise di cambiar vita. Per trenta primavere consecutive partiva dal paesello natio e finiva in Germania, tra le mandibole di una caotica città a produrre e vendere gelato. I soldi non gli mancavano. Di conseguenza nemmeno orpelli, marchingegni e automobili, che il danaro gli forniva con abbondanza e piacimento. Senza contare le case, o meglio, le ville, una qua e una là, sparse dappertutto tra mari e monti. Ma non appariva felice. Sembrava annoiato. Annoiato e stanco. Forse perché il lusso alla lunga non diverte più.
«Fortunati voi» diceva, «che potete stare qui, io sono anni che non godo una primavera nel mio paese.»
I più lo mandavano affanculo. Altri, meno nervosi, rispondevano a tono: «Molla tutto, torna a casa, chi te lo fa “fare? Soldi ne hai come ghiaia sul torrente! Puoi vedere tutte le primavere che ti restano».
Lui niente, cocciuto, doveva andare lì, a smerciare gelato, ingrassare e rimpinguare i conti in banca. Ma alla fine si stufò, “vendette tutto e tornò a casa. Era agro, disse. Forse della Germania, non di fare soldi. Una volta rientrato, infatti, s’arrovellò per inventare qualcosa a scopo di lucro. Il vizio di accumular denaro, quando uno lo tiene in testa, a un certo punto gli salta fuori e corre, e s’ingrossa come una palla di neve che rotolando fa valanga. Questa valanga, però, se trova un pendio di neve dura, invece che ingrossarsi si assottiglia fino a sparire con un puff, come è successo a Icio Duran. All’ex gelataio, incuriosito dai cartelli che dichiaravano di comprare oro, venne l’idea che gli uomini hanno da sempre: sfruttare le idee altrui.
Affittò un locale nella città vicina, circa tre quarti d’ora dal paese, e dopo nemmeno una settimana sulla porta apparve il cartello “Compro oro”. Con l’aggiunta “e argento”. Un mese dopo: “e metalli preziosi”. I soldi per acquistare il prodotto non gli mancavano, ma stavolta, invece di impilare filigrana, voleva accumulare qualcosa di pesante. Non contento, dopo un po’ aggiunse al cartello: “e diamanti”.
Quando lo venni a sapere, subito mi balzò in testa di esser il suo primo cliente e vendergli la fede di matrimonio. Poi ricordai che, molti anni “prima, dopo una rissa consortiva (cioè: con la consorte), me l’ero sfilata e l’avevo gettata nel Vajont perché l’amore si mantenesse lucido, senza rischio di arrugginire.
Dal giorno in cui si mise a comprare oro, il mio, tra virgolette, amico, scoprì realtà fino allora sconosciute. Innanzitutto il valore delle cose, che non si riduce sempre e soltanto a squallida moneta. Poi, quanto era tremenda la vita per molte anime sfortunate. E poi, ancora più importante, quanto era egoista e cinico lui. Ma questo non voleva dirselo. Nei due anni che gestì il negozio “dorato, ultimo approdo per i disperati, vide scene di ogni livello morale e cadute terminali senza scampo. Una vecchietta, per aiutare il figlio disoccupato, vendette la catenina d’oro che il marito le aveva regalato cinquant’anni prima. Un’altra donna, senza più una lira, cedette l’oro lasciatole dalla mamma defunta. Mentre posava i gioielli sul banco, piangeva e li baciava uno per uno. E ancora, un uomo arrivò con alcuni monili, ultimi testimoni di un matrimonio andato a rotoli. Li buttò lì con indifferenza, e un cinico piacere negli occhi, come si fosse sbarazzato finalmente di quei ricordi amari. E poi giovani drogati, tossicodipendenti all’ultimo stadio che cercavano di piazzare roba per recuperare delle dosi. Si capiva lontano un chilometro che era merce rubata. Il mio, tra virgolette, amico, raccattava tutto e da tutti, senza manco esigere documenti o carte d’identità.
«L’oro non ha naso né occhi» soleva dire. «E io non ho orecchie» aggiungeva.
Una volta si presentò una vecchietta per vendere un piccolo diamante. Tra la misera pensione e il costo della vita era allo stremo e lo cedeva volentieri. Lo aveva avuto in dono dalla contessa Giuliana Andreotti di Prataccio, padrona di una villa in cima al Passo “dell’Oppio, vicino a Pistoia. In quella casa da giovinetta aveva servito per dieci anni.
«Non le dispiace?» chiese il compra-oro.
«No» rispose, «ho scoperto una canzone che dice: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior!”. Non mi dispiace affatto.»
Un giorno l’amico mi confessò pure la carognata d’aver fatto manomettere il bilancino in modo che gli oggetti pesassero “meno di quanto in realtà pesavano. Il più delle volte andavano da lui vecchi al termine dei giorni. Vendevano gli ultimi ricordi perché la pensione non bastava, i pochi spiccioli non reggevano l’urto negativo dell’euro. Pur ignorando l’andamento dello spread, s’accorgevano, questi vecchi, che per loro tutto era diventato difficile. Forse lo era sempre stato.
Una mattina si presentò un bambino sui dodici anni con una collana in mano.
«È di mia mamma» disse al compratore, «mi ha detto di venderla.»
«Dov’è tua mamma?»
«Qui fuori, si vergogna a entrare, dice se può prendere la collana e darmi i soldi.»
L’uomo si alzò e sbirciò dalla porta. La donna stava seduta con la testa fra le mani. Singhiozzava. Uscì e la fece entrare. Questa gli raccontò una storia di violenza e abbandono, miseria e crudeltà. Ma non bastò a intenerire l’ex gelataio. Pesò il monile, lo pagò, lo ficcò in cassaforte e congedò i due. Il bambino seguì i suoi movimenti con occhi attenti. Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono. In quel momento il compra-oro si sentì un pezzo di merda, anzi una merda intera. Ricordò il volto di tutti i disperati, passati da lui a posare “qualche grammo d’oro su quel banco. Si vergognò e decise di finire lì. Gli occhi del ragazzino lo incenerivano. In pochi giorni chiuse la clinica dell’oro ripulito e tornò ai monti.
Ma non poteva rimanere senza far niente. Inventarsi qualcosa per guadagnar soldi era un bisogno più forte di lui. E lo inventò. Stavolta, però, voleva sporcarsi le mani non più la coscienza. “Così comprò trenta vacche da latte, affittò una vecchia baita ricca di pascoli fiorenti, ingaggiò un casaro e si mise a produrre formaggio, burro e tutti i derivati del latte.
D’inverno teneva le bestie in una grande stalla ai margini del paese, d’estate le lasciava nei prati dei pascoli alti. Per smerciare al meglio i prodotti, aprì un agriturismo: gli affari andavano a tutta birra. Teneva prezzi bassi, formula magica in tempo di crisi. Ma c’era un prodotto che gli intrigava e s’accumulava sempre più: il letame. Montagne di letame ormai invadevano gli spazi attigui alla stalla. Che fare? Gli venne un’idea finalmente sua, un’idea di merda.
Il giorno dopo, sulla Statale nei pressi dell’agriturismo, apparve un cartello, due metri per due, con la scritta: “Vendo letame”. In cinque anni era passato da comprare oro al vendere letame. Iniziò a presentarsi gente con camioncini, motocarri, moto-ape, trattori e carriole a chiedere escremento di vacca per concimare campi, orti, serre e via dicendo. Chiedeva due euro a quintale e in breve tempo smantellò concimaie e depositi. Scoprì, con una certa soddisfazione, che faceva pagare il letame più del latte. Altro che idea di merda! Aveva innato il senso degli “degli affari e andava sempre fino in fondo. O di là o di qua, o vincere o perdere, comunque provare. Finora aveva sempre vinto.
Un giorno incrociò altri occhi come quelli del bambino. Erano di una vecchietta con la gerla in spalla che andava a chiedere un po’ di letame. Gliene serviva poco. Lo avrebbe sparso nel suo orticello. Da giovane aveva lavorato come portatrice, con la gerla, e dopo sessant’anni usava ancora quel sistema di trasporto. Non voleva però pagare il letame e lo confessò subito.
“«Ho pochi soldi, me lo regali?»
«Io non do roba gratis» disse il venditore.
«Non è roba questa, è letame!» rispose la vecchia.
«Se lo vendo va pagato, una cosa che si vende ha un prezzo e quello va pagato» ribatté l’uomo.
La vecchia lo guardò in faccia. Lo guardò con le rughe di un lungo tempo tribolato prima ancora che con gli occhi. Disse: «Lei dovrebbe vergognarsi, questa è pasta della vita, non si deve vendere. Lei è un ignorante, non conosce la canzone di uno che è morto e non la canta più. La conoscono a milioni fuori che lei e tanti la cantano ancora. E la canteranno sempre. Una volta le ho venduto un piccolo diamante, perché ero disperata. Mentre mi pagava, le ho detto le parole della canzone. Ma lei, oltre a essere ignorante, ha la memoria corta, i soldi tolgono memoria. Allora le ripeto: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori!”. Lei non dovrebbe farsi pagare una cosa che fa nascere i fiori. Si vergogni». Detto questo caricò la gerla di letame e se ne andò.
Il giorno dopo tornò. C’era ancora il cartello, ma la scritta era cambiata: “Regalo letame"
“diceva.
Queste parole campeggiavano bene in vista al centro del quadrato. L’ex gelataio stava migliorando.”

Estratto di: Corona, Mauro. “Venti Racconti Allegri E Uno Triste.” Mondadori. iBooks. 

lunedì 25 febbraio 2013

OlIvia ovvero la lista dei sogni possibili



“Quando la tua anima è pronta,
lo sono anche le cose.
WILLIAM SHAKESPEARE, Enrico V”

Estratto di: Calvetti, Paola. “Olivia. Ovvero La Lista Dei Sogni Possibili.”


domenica 24 febbraio 2013

Il piccolo principe e la sua rosa sotto la campana di vetro.





“Il piccolo principe allora non poté frenare la sua ammirazione:
«Come sei bello!»”
“«Vero», rispose dolcemente il fiore, «e sono nato insieme al sole...»
Il piccolo principe indovinò che non era molto modesto, ma era così commovente!
«Credo che sia l'ora del caffè e latte», aveva soggiunto, «vorresti pensare a me...»
E il piccolo principe, tutto confuso, andò a cercare un innaffiatoio di acqua fresca e servi al fiore la sua colazione.”
“Così l'aveva ben presto tormentato con la sua vanità un poco ombrosa. Per esempio, un giorno, parlando delle sue quattro spine, gli aveva detto:
«Possono venire le tigri, con i loro artigli!»”
“«Non ci sono tigri sul mio pianeta», aveva obiettato il piccolo principe, «e poi le tigri non mangiano l'erba».
«Io non sono un'erba», aveva dolcemente risposto il fiore.
«Scusami...»
«Non ho paura delle tigri, ma ho orrore delle “correnti d'aria... Non avresti per caso un paravento?»
«Orrore delle correnti d'aria?
«È un po' grave per una pianta», aveva osservato il piccolo principe. «È molto complicato questo fiore...»
«Alla sera mi metterai al riparo sotto a una campana di vetro. Fa molto freddo qui da te... Non è una sistemazione che mi soddisfi. Da dove vengo io...»
Ma si era interrotto. Era venuto sotto forma di seme. Non poteva conoscere nulla degli altri mondi. Umiliato di essersi lasciato sorprendere a dire una bugia così ingenua, aveva tossito due o tre volte, per mettere il piccolo principe dalla parte del torto...
«E questo paravento?...»
«Andavo a cercarlo, ma tu mi parlavi!»
Allora aveva forzato la sua tosse per fargli venire dei rimorsi. Così il piccolo principe, nonostante tutta la buona volontà del suo amore, aveva cominciato a dubitare di lui. Aveva preso sul serio delle parole senza importanza che l'avevano reso infelice.
«Avrei dovuto non ascoltarlo», mi confidò un giorno, «non bisogna mai ascoltare i fiori. Basta guardarli e respirarli. Il mio, profumava il mio pianeta, ma non sapevo rallegrarmene. Quella storia degli artigli, che mi aveva tanto raggelato, avrebbe dovuto intenerirmi».
E mi confidò ancora:
«Non ho saputo “capire niente allora! Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole. “Mi profumava e mi illuminava. Non avrei mai dovuto venirmene via! Avrei dovuto indovinare la sua tenerezza dietro le piccole astuzie. I fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per saperlo amare».”

Estratto di: Antoine De Saint-Exupéry. “Il Piccolo Principe.” iBooks.
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È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito.

[Antoine de Saint-Exupery]






 





Si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere le farfalle... Dicono siano così belle!


giovedì 14 febbraio 2013

San Valentino

Oggi è la Festa di tutti perchè l’Amore non è solo rapporto uomo/donna, c’è anche il gatto, gli amici, i familiari, i colleghi, i compagni di viaggio, l’anziano col cappello che guarda i lavori…. l’amore è anche guardare le stelle e sentirsi piccoli… è guardare il tramonto e sentirsi liberi… cioè non so se rendo l’idea… ce ne sarebbero tante da dire…
(Eduard Leon Word)